La figlia di stoffa e di legno

Giulia-Caminito5Antoine aveva sessant’anni e una pancia lunare, possedeva solo camicie bianche, ma non era un uomo testardo, più che altro se si convinceva di qualcosa poi quel qualcosa lo tormentava, levandogli il sonno. Come un tarlo in un mobile antico, quel qualcosa produceva un rumorino incessante, indomito, ferocemente onnipresente.

Erano ormai mesi che il tarlo di Antoine, il quale a ben dire la sapeva lunga sui tarli e le loro manie, era quello di voler sostituire sua figlia con un manichino.

Operazione all’inizio solo ventilata, risultato di un lampo di genio subitaneo che lo aveva colto mentre dava da mangiare ai piccioni a Place de la Bastille poi maturato in un’idea convincente, assoluta, un faro nelle giornate nebbiose della vita di Antoine.

Nella catena minuziosamente ragionata dall’uomo, ogni sfortuna economica, che lo aveva colpito negli ultimi tempi, era dovuta all’assenza della figlia. La sua ingiustificata fuga da una vita irreprensibile che lui fino a quel momento le aveva con cura garantito, per comprarsi uno sciocco gatto tigrato e andare a vivere in un tugurio qualsiasi, gli era indigesta. Lo andava a trovare solo una volta al mese, sempre di sabato, alla sua bottega, quando il negozio era chiuso e lui puliva le cornici.

Sua figlia entrava con sotto braccio pane arabo ripieno di hummus e falafel, il piatto preferito di Antoine, trottava con le sue scarpette colorate, buttava lì un “fatti meglio la barba” e un “smettila di fumare altrimenti muori presto” e poi andava via, come era venuta, facendo trillare il campanello apposto all’ingresso del negozio.

Antoine varcò la soglia del Passages Du Caire pensando quanto detestasse gli oggetti nuovi che tanto facevano gola a sua figlia, quelli appena prodotti, gli ultimi usciti dal magazzino, fatti con quei tessuti di plastica vischiosi, quei colori luminescenti, quelle scritte cucite e ricucite, quell’odore barbaro di naftalina, la loro incapacità a durare per più di qualche mese, i materiali di infima qualità con cui erano assemblati. Oggetti inutili, appena immessi nel mercato e già superflui, vomitati nelle vie e nei negozi e immediatamente obsoleti.

Antoine era un paladino delle anticaglie, dei broccati, delle sete, del vetro soffiato, delle pentole in rame, del legno intagliato, e soprattutto dell’argento.

Se c’era qualcosa che faceva venire il pizzicore alla lingua di Antoine quello era l’argento, nella sua luminosità eterea, perfetta, commuovente. L’argento che se preso a schicchere risuonava come uno strumento, se accarezzato era liscio e gelido, invernale e notturno. Quando veniva cesellato a mano poi, in quelle pieghette, in quei ghirigori così solidi e precisi, Antoine perdeva la propria ragione sconfinando nell’idolatria e nella venerazione assoluta.

Per questo puliva gli argenti, non solo i suoi perché non ne aveva mai posseduti molti, ma gli argenti delle signore, della Madame di Parigi che ne avevano a bizzeffe stipati nei mobili in mogano, ereditati da contesse e cortigiane, dai nobili a cavallo e moschettieri.

Antoine le raggiungeva a domicilio, con la sua valigetta di cuoio, che apriva solo davanti ai diretti interessati, cioè gli argenti, e che nascondeva tutti i ferri del suo mestiere, i prodotti per lucidare, i pannini di renna, le spatoline, gli spazzolini dalle setole morbide. Il kit era sempre aggiornato e ben tenuto. Ogni macchia, ogni ombra, ogni ditata distrattamente posata sulla superficie di una brocca come di una posata sarebbe stata eliminata.

Una zuccheriera d’argento una volta posseduta rimaneva tutta la vita, e poteva essere lasciata ai tuoi figli e ai figli dei tuoi figli e ai figli dei figli dei tuoi figli, per generazioni avrebbe deliziato tutti per i tè e i caffè, la mattina, il tardo pomeriggio, la sera dopo la cena, avrebbe accompagnato fedelmente ogni loro rito quotidiano, senza perdere nulla in brillantezza; ripeteva sempre a sua figlia e a sua moglie, quando ancora ne aveva una.

Eredità una volta voleva dire qualcosa, sospirava Antoine.

Al Passage du Caire, su cui si affacciavano negozi principalmente cinesi di abbigliamento all’ingrosso e qualche boutique di design, Antoine pensava si annidasse la bruttezza del mondo.

Mentre attraverso una vetrina guardava un lampadario in plastica rosa accesa pendere dal soffitto e leggeva che il suo prezzo era di circa quattrocento euro, il cuore di Antoine soffriva pene inenarrabili e i suoi occhi si inumidivano come di fronte alla fine di un amore.

Stavano ricostruendo tutto lì, la volta angolare in ferro e vetro era stata buttata giù e piano piano erano entrati in scena il metallo e il plexiglas per permettere al passage di rimanere luminoso, ma senza quelle terribili e costanti infiltrazioni.

Non era rimasto nulla degli antichi pavimenti, nulla dei fregi egiziani. La Buona anima di Napoleone, che lo aveva fatto costruire, li avrebbe attesi tutti all’inferno, pensò Antoine passando davanti a un piccolo bar Kosher che alle undici di mattina era spento come una lampadina in una casa vuota.

Si fermò a guardare i manichini, convinto di voler stoicamente portare a termine la propria missione. Antoine aveva infatti messo da parte a cadenza regolare i soldi giusti per acquistare un manichino degno di tale nome, perché in fin dei conti doveva prendere il posto di sua figlia e non poteva essere quindi un pezzo di plastica qualsiasi. Antoine voleva un manichino sontuoso.

Lungo il corridoio del Passage du Caire uno dietro l’altro, in fila come soldati a riposo, si susseguivano manichini di varia foggia, dimensione e peso.

C’erano i semplici busti di plastica che servivano per le pareti dei negozi a poco prezzo, quelli tutto busto senza gambe, quelli senza le mani; poi c’erano le mani a parte per guanti e gioielli, mani bianche, nere, verdi, mani rosse volendo, mani con dita mobili, con dita fisse, con pollici opponibili.

Un negozio per ricchi mostrava in vetrina il manichino di una donna liscissima, tutta argentata, che fece venire ad Antoine una pelle d’oca da traghetto sulla Senna in pieno gennaio.

Alla fine si decise ed entrò in uno dei negozi, dopo aver fatto su e giù tre quattro volte, tanto da aver insospettito e ostacolato i giovanotti che portavano dentro e fuori dal passage pacchi e stendini pieni di abiti in stock.

«Bonjour, sono qui per comprare un manichino» disse Antoine trionfante alla signorina mulatta dai capelli tinti di rosso amaranto che gli si parò davanti.

«Che tipo di manichino?»

«Non so, un bel manichino, un manichino donna.»

«Bene, lo vuole con o senza testa?»

«Be’, con, certo, con tutta la testa.»

«Perché sa i prezzi cambiano se ha o meno la testa.»

«A me serve la testa decisamente, ne ho bisogno.»

«Ottimo allora può guardare da questa parte, mezzo busto o intero?»

«Intero mi serve una donna completa, mani braccia, testa, piedi, tutto quanto.»

La commessa di nome Justine, per gli amici Just, gli fece fare un piccolo tour nel retro nel negozio dove erano tenuti tutti i tipi di manichini. Just non si poteva proprio dire una ragazza sorridente, ma nel suo ghigno alla Monna Lisa si potevano ritrovare un certo senso di gentilezza e una buona dose di compiacenza. Indossava un camicione nero di flanella e una paio di jeans attillati. Camminava, nel suo docile metro e settanta, consapevole della propria buona proporzione e del proprio viso delicato.

«Vogliamo scegliere un materiale? I prezzi salgono mano a mano che la plastica diminuisce. Quindi, questi color pelle sono quelli che costano meno, quelli in stoffa e plastica di più, questi in stoffa e legno di più, questi tutti di legno sono i più costosi. Dipende anche da come sono modellati, vede? Possono esserci più o meno dettagli: più dettagli più sale il prezzo, meno dettagli e meno si paga»

«Tutto chiaro» stralunato da quelle facce senza volto e da quelle cosce verde acido o bianco avorio, Antoine non aveva nulla di chiaro in realtà, se non che aveva bisogno di un manichino per sostituire sua figlia.

Eppure era abituato a scegliere oggetti, a pensarli in prospettiva. Lui vedeva il valore nascosto delle cose, ciò che sarebbero potute diventare, quando le recuperava dai rigattieri o ai mercati dell’usato, quando le sceglieva nelle soffitte coperte di ragnatele o per strada vicino ai cassonetti. Ciò, secondo lui, faceva un buon antiquario: la capacità di capire il valore di oggetti che ad altri sembravano solo vecchi appendiabiti arrugginiti, o centritavola sbeccati, o tende portatrici di acari. Invece no, per lui erano pezzi unici, che andavano solo ripuliti, levigati, coccolati, amati, e soprattutto privati dei loro principali inquilini: le tarme.

Nella sua bottega Antoine esponeva quegli oggetti preziosi che aveva allevato, i suoi figli prediletti, tolti alla strada e all’oblio per farli tornare nel mondo, valutati e pagati per il loro reale valore.

Mentre fissava il naso a punta di un manichino blu, Antoine pensò che lui avrebbe voluto più di ogni altra cosa una mantella di velluto con cui coprire la nudità di quel non-corpo anonimo dal colore irreale.

«Bene, ne vorrei uno di stoffa e legno ne sono sicuro, non posso soffrire la plastica e non desidero una donna blu.»

«Ottima scelta» Just incamerò l’informazione e inserì in automatico Antoine dentro la casella: feticista con tendenze necrofile. «Cosa mi dice della forma del corpo? Seno tondo o seno a punta?»

«Non ho preferenze di questo genere…» Antoine arrossì preso alla sprovvista.

Quando uscì da lì, aveva sotto braccio, tenuto a gran fatica tra il fianco e l’ascella, un manichino con busto di stoffa e arti in legno, seno quasi inesistente, testa pelata, naso e bocca accennati. Lo aveva pagato una fortuna, ma lo portò al suo furgone come se avesse appena ritrovato la gioia di vivere.

Quello stesso pomeriggio, Antoine raggiunse il Passage Des Panoramas e la sua vetrina.

Sì, perché Antoine era l’antiquario fantasma e possedeva solo una vetrina lì, di un metro per due, davanti a un paio di bigiotterie, e la conservava con orgoglio. Una vetrinetta pubblicitaria, che avrebbe dovuto invogliare i passanti ad andare all’effettiva bottega di Antoine.

Mentre tutto cambiava là intorno lui rimaneva, lui e la sua vetrina con dentro i suoi due quadri, quello del Pappagallo e quello del Signore, scelti con cura maniacale, uno scuro e torvo – il Signore – per attirare i passanti dall’umore melanconico e mesto, e l’altro – il Pappagallo – giallo e luccicante per gli occhi di chi era felice e scorrazzava nel mondo sorridendo.

C’erano stati bei giorni per Antoine, quando sua figlia Marianne viveva ancora con lui, non era così ossessionata da quegli aggeggi elettronici, da quegli stupidi video di youtube, e due volte a settimana lasciava la bottega per stare alla vetrina. Marianne sedeva lì dentro su una sedia, che da allora Antoine non aveva mai spostato di un centimetro, sorrideva ai passanti e distribuiva i volantini della bottega.

Erano i giorni in cui molti clienti notavano la sua vetrina così ben tenuta dalla sua bella figlia.

Ma da mesi ormai la vetrina restava chiusa, come il dolore di Antoine. Marianne aveva deciso di imparare l’arabo e lavorare negli hotel, il Pappagallo e il Signore erano rimasti soli.

Alla bottega veniva sempre meno gente e Antoine era convinto che fosse colpa di quell’assenza, di quel vuoto nella sua vetrinetta, così poco calorosa ora, così meno famigliare, meno umana.

Spostò finalmente la sedia e al suo posto sistemò il manichino di stoffa e di legno, lo vestì con una mantella di velluto e una parrucca Luigi XIV, gli piegò le mani sul grembo, accarezzò i ricci bianchi, spazzolò il tessuto della veste. Poi uscì e chiuse a chiave.

Fece un passo indietro e ammirò il proprio capolavoro: nella vetrina del Passage Des Panoramas ora insieme ai suoi due quadri preferiti era tornata sua figlia.

Sentì ridere, le risate dolci di due amanti – o almeno questo pensò Antoine, uomo divorziato da tanti anni, che amava solo una donna, la sua Marianne – e vide un signore ormai anziano dall’accento smaccatamente greco dividere a metà una crostata di visciole con una signora dai capelli ricci e biondi, dalla borsa di lei spuntavano un paio di calzini a righe rosse e blu.

L’uomo greco alzò gli occhi su di lui e sulla vetrina, disse: «Ah, très jolie!».

E Antoine fu di nuovo felice.

 


 

Questo racconto rientra nel progetto Passages che ho scritto durante il mio soggiorno a Parigi nel marzo 2017 all’Istituto Italiano di Cultura. Si tratta di una piccola raccolta tutta ambientata negli storici passages di Parigi, omaggio alla mia permanenza lì e a un certo tipo di narrazione romanzesca e cinematografica francese, a cui sono particolarmente legata.

Giuls

Lascia un commento